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Attività artistica nel segno di un'impronta, di un segno- o sogno- sinestetico quello di Nino Velotti, docente napoletano che ama spaziare dalla scrittura in versi a quella in musica (fa parte del duo pop-sperimentale Hueco) e che in questa sua terza opera fa accompagnare in un rimando di interrogazioni e di sguardi i testi oltre che da propri lavori fotografici e digitali anche da foto e dipinti di altri artisti (tra gli altri ricordiamo Novella Parigini e una bella opera di Veronica Vecchione). Lo sguardo dicevamo è quello su un mondo che appare in separazione e che solo la presenza degli animali, gli amati "bimbi ancestrali", può guidare, far convergere ancora l'uomo a un dubbio fra una pratica abitativa della terra- e pertanto di se stesso- connotata dall' abuso ad una conforme alla misura del cuore e dell'occhio (per dirla con Elitis) e dunque di custodia nella cova di luce che crepita "sotto il mare del mondo". C'è infatti in questa poesia la sottesa vitalità di un'esistenza sotterranea, per certi versi estranea alle sorti stesse del mondo eppure proprio del mondo a suo modo fulcro nell'espressione piena che viene dal piccolo, dal minuto rintanato "tra pieghe d'atomi" e che forse proprio per questo nelle sue aperture tanto ci spaura e confonde. Esistenza che come questa poesia, come la poesia, non dà risposte ma provoca leopardianamente domande nel rimbalzo di un cosmo, di un cielo che sovrasta là dove la Terra brilla "di luce/ propria, anche in notti senza luna e stelle" ed al cui giro l'uomo non può che opporre "ad ogni morte la forza contraria". Quello di Velotti allora è un dettato estremamente fisico dominato nell'alternanza diaristica ma soprattutto mentale delle stagioni, in quel contrasto d'anime sospinto tra le pieghe di estati ed inverni che andiamo a subire tra promesse inevase- ed ormai lontane- di luce e gelo di respiri senza più nido. Casa la terra di un veleno che viene dalla disappartenenza di una contro-natura che ha figura nel rifiuto, in quel bruciare di diossina in cui s'incendia nell'ammasso il nostro non pensarci finiti (nel nostro assuefarci "alle assenze dopo i drammi"). Così "armi di indifferenza e di delitto", a suffragare l'assunto di un'età dell'oro che non era, non è nell'inizio dell'età; semmai, nella forza del richiamo, "idillio c'è forse laddove/ non muore un uovo", nel macello pasquale la metafora e la contraddizione di un precipizio in cui la vita non cede a rinascite. Nella osservazione del cielo cui ritorna nella passione di una terra disattesa, il panico di spazio, l'ansia nel Dio che "spiana spume, che smista aria nera", rivela nel disegno delle galassie, tra fobie e amnesie, "in un che di familiare e alienante" i tratti di un feto gigante (vedi "Il bambino astrale") sollevando la riflessione se non sia proprio un bambino capriccioso invece a giocare"combinando/ gli universi vibranti il bene e il male". A proposito dell'infanzia nella costanza di un tema mai slegato da quello animale (di cui i carissimi gatti sono i maestri) in quell'essenza purissima che li fa "custodi d'assoluto" la ferma possibilità di poter scrutare forse nelle "curve aghiformi dei sempreverdi", nel "bel caso superiore" delle nuvole, il "fiore/mai uguale" dell'anello che presiede e tiene tra "granelli di luce e frante sfere", tra le crepe e i suoni delle spighe. Intanto però, nella dissonanza, lo sforzo nell'amore espanso è restare insieme proprio a partire dalla comprensione del proprio male, delle proprie endemiche crepe, trasparendo come il papavero dell'omonima poesia (probabilmente la più riuscita del libro) che "contento e in disparte e senza lutto" sa il proprio "breve fiorire bello a maggio" nella "fessura/ del cemento". Per quanto riguarda l'aspetto metrico-prosodico non possiamo infine che convenire con Carlangelo Mauro che nella postfazione ricorda come Velotti sappia ravvivare "la struttura stereotipata del sonetto classico con una buona varietà di ritmi scanditi da poche pause in un continuum musicale di sinalefi e sineresi anche in deroghe a norme classiche". Musicalità aggiungiamo noi accompagnata da una gioiosa dolenza che si rivela come uno dei punti cardine di una poetica tagliente, di una scrittura sempre viva forse "per gioco e per donare amore".

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